The Second Renaissance
     
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D'Ormesson: cari moderni, siete già vecchi


  
 
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Uno sguardo sul mondo che cambia
S'intitola Odore del tempo il nuovo libro di Jean d'Ormesson, appena tradotto in Italia dalle edizioni Spirali (pagine 439, € 34). Si tratta di un'antologia in cui l'autore, scrittore e accademico di Francia, ha raccolto alcuni dei suoi più significativi articoli di cronaca e cultura. D'Ormesson, nato a Parigi nel 1925, è autore di numerose opere di narrativa e saggistica. Ha diretto il quotidiano «Le Figaro», per il quale adesso cura una collana di classici.

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La modernità è una cosa vecchia. In Francia, ai tempi di Luigi XIV, gli scrittori erano divisi in due campi opposti: gli Antichi, che al di sopra di tutto ponevano i Greci e i Latini, come Omero, Sofocle, Eschilo, Euripide, Virgilio, Orazio, e i Moderni, secondo cui i contemporanei uguagliavano o superavano i grandi Antichi. La disputa sugli Antichi e sui Moderni assumeva talvolta aspetti violenti. È interessante che proprio i più accaniti sostenitori degli Antichi (La Fontaine, Racine, Boileau...) abbiano dato al secolo di Luigi XIV il suo splendore incomparabile e abbiano così fatto trionfare i Moderni.
Due o tre secoli dopo Luigi XIV, l'eroe moderno è Rimbaud. È un antenato. La sua nascita coincide quasi con quella di Pétain. Dopo Rimbaud, innumerevoli, successive ondate di modernità sono passate allo stato di venerabili anticaglie. Essendo la moda, per definizione, qualcosa che passa di moda ed essendo la modernità minacciata di continuo da qualcosa di più moderno, non c'è nulla che diventi fuori moda più rapidamente di un moderno superato. Eccoci giunti a parlare di post-moderni. E persino i post-moderni sanno già un po' di muffa.
Diffidare della modernità non è una ragione sufficiente per accontentarsi dell'antico. Nell'arte, nella pittura, nella letteratura, il compito di ogni generazione, qualunque essa sia, è di opporsi, la maggior parte delle volte con violenza, alle generazioni precedenti. La letteratura non teme nulla quanto i luoghi comuni e le ripetizioni, e l'arte è sempre giovane.
L'età non è un criterio decisivo. Non mancano esempi di scrittori o artisti (Hugo, Chateaubriand con la sua Vita di Rancé, Michelangelo, Tiziano...) che manifestano molto tardi un'inventiva e un'immaginazione intatte. Ma per regola generale l'invenzione è propria della giovinezza. Si asserisce che le grandi scoperte in matematica avvengano prima dei trent'anni. I limiti sono più sfumati in letteratura. Comunque, l'immenso vantaggio della giovinezza è di non avere un passato e di avere solo l'avvenire, mentre le persone anziane, sempre a corto di avvenire, trascorrono il tempo a gestire il proprio passato: sovente i fallimenti e talvolta, peggio ancora, i successi. Arriviamo così alla celebre conversazione fra due accademici invecchiati nell'esercizio del loro mestiere: «Come sta il nostro collega Tal dei Tali? - Oh! È mezzo rimbambito. - Ah! Allora sta meglio».
Il commentatore di oggi non ha da occuparti né di modernità né di età e nemmeno di rinnovamento ad ogni costo. Bisogna innanzitutto che segua alla lettera il consiglio di Voltaire e cerchi di evitare quella che fin dalle origini rappresenta una calamità per qualsiasi letteratura: la noia.
Quando mia figlia, editrice, m'ha proposto di raccogliere un certo numero di articoli che da trenta o quarant'anni avevo distribuito qua e là, e soprattutto al «Figaro», il mio primo impulso è stato di tirarmi indietro. Molti grandi scrittori sono stati giornalisti. Con la sua famosa Anabasi, che ripercorre la ritirata dei Diecimila mercenari dalle profondità dell'impero persiano fino al Mar Nero, Senofonte fa già un lavoro da giornalista. A Erodoto si potrebbe dare il titolo di inviato speciale della Grecia in Egitto. In Francia, Victor Hugo, con il suo scritto Cose viste (dove racconta scandali, affari, processi della sua epoca e la morte di alcuni grandi personaggi come Talleyrand, Balzac, Chateaubriand...) e più tardi Barrès o Mauriac, con il suo celebre Bloc-notes, sono al tempo stesso grandi scrittori e grandi giornalisti. Non sarà difficile trovare esempi simili in Italia. C'è tuttavia una differenza di natura fra giornalismo e letteratura. Diceva Gide: «Chiamo giornalismo quello che sarà meno interessante domani di oggi». E diceva Péguy: «Nulla è più vecchio del giornale di stamattina e Omero è sempre giovane».
Molte cose oppongono giornalismo e letteratura. Il giornalismo è prima di tutto una équipe, un titolo, una collettività, mentre lo scrittore è sempre solo. Inoltre, si potrebbe sostenere che a interessare il giornalismo è lo straordinario, l'eccezionale, l'inverosimile. E ad attirare lo scrittore o il romanziere è l'umile banalità di ogni giorno. Spingendosi oltre, si potrebbe asserire che il campo del giornalista è la vita e che, in un modo o nell'altro, lo scrittore è ossessionato dalla morte. Ma quel che separa davvero letteratura e giornalismo è il rapporto col tempo.
Il tempo ha due grandi caratteristiche che si oppongono e si confondono: esso passa e dura. Il giornalismo è interamente dalla parte del tempo che passa e la letteratura è interamente dalla parte del temo che dura.
La parola d'ordine del giornalismo è l'urgenza. La preoccupazione della letteratura è l'essenziale. L'ansia maggiore del giornalista è d'essere il primo ad annunciare qualcosa che, il più delle volte, l'indomani sarà dimenticato. La sola ambizione dello scrittore è di ripetere instancabilmente le stesso ossessioni e d'essere letto dieci, venti, cinquant'anni dopo la propria morte. Un articolo per un giornale deve essere scritto più o meno nello stesso tempo che occorre per leggerlo. Un libro, per dirsi riuscito, richiede molto lavoro e molto tempo, spesso anni, talvolta una vita intera. I migliori articoli sono quelli scritti di slancio; la letteratura è un lavoro di lunga pazienza. Flaubert diceva che in essa c'è il 10 per cento d'ispirazione e il 90 per cento di traspirazione.
I testi del giornalista sono per natura effimeri. Non vedevo quindi la necessità di raccogliere in un volume commenti scritti lungo gli anni e necessariamente segnati dal tempo. Nello scorrere quegli articoli, constatavo l'invecchiamento delle analisi politiche: fuori dal contesto temporale, molte di esse erano diventate quasi incomprensibili. In compenso, fui sorpreso da due serie di articoli che avevano un profumo quasi atemporale: le recensioni di libri e i racconti di viaggio.
I paesaggi forse cambiano, tutti lo constatiamo molto spesso con una stretta al cuore, ma cambiano lentamente e abbastanza poco, comunque meno dei sistemi politici, così spaventosamente fragili. E i libri riversano, se non proprio l'eternità, perlomeno un po' di stabilità nel flusso di impermanenza che è il procedere del mondo. Da Sant'Agostino o da Dante fino a Pascal, a Hegel, a Proust o a Heidegger, quel che fa grande un libro è che esso costituisce, secondo la formula di Tucidide, un ktema es aiei, un tesoro per sempre.
È questo tesoro per sempre che ho cercato d'esplorare nella raccolta intitolata Odore del tempo (Spirali). Dove parlo di Omero, Einstein, Federico II Hohenstaufen, Chateaubriand, Proust, Borges e Jorge Amado, di Louis Aragon e delle sei sorelle Mitford, di cui una era comunista, un'altra innamorata di Hitler e una terza scrittrice di romanzi. Parlo anche di Borobudur, di Cipro e Famagosta, di Dubrovnik, del Brasile e dell'Egitto e soprattutto, soprattutto di quell'Italia che ho tanto amato, dove torno appena posso e che ho percorso in lungo e in largo, da Venezia e dalla Toscana fino a Napoli e a Lecce. Che cosa dunque ho cercato di fare? Ho cercato di preservare nel giornalismo effimero quel che poteva esserci, se non di permanente, almeno di durevole. Senza preoccuparmi troppo della sacrosanta modernità, ma evitando l'eccessiva specializzazione e mescolando, così come ci incita a fare il mondo di oggi, lo sport alla letteratura, l'ironia alla tradizione, molto piacere a un poco di memoria.
Che cosa ha contato per me? Prima di ogni altra cosa, i libri. Mentre non si discute che della loro scomparsa più o meno prossima, io ne ho fatto un oggetto di culto, ad essi ho dedicato la maggior parte del mio tempo. Sconvolgenti o deliziosi, decisivi o affascinanti, continuano a incantare il nostro breve passaggio in un mondo che, senza di essi, sarebbe sinistro e quasi non esisterebbe.
Mi è piaciuto molto lavorare. Mi è piaciuto anche non far nulla. In primo luogo, mi è piaciuto partire, andare altrove, passeggiare, col naso in aria e le mani in tasca, per questo vasto mondo e nelle isole divorate dal sole dove ho amato tanto sfuggire al frastuono delle nostre grandi città.
Il mondo mi ha sempre ispirato un duplice sentimento: di riserva che va fino al rifiuto, e di adesione prossima all'entusiasmo. Cosa facciamo quaggiù? Quasi niente. Cosa siamo? Assolutamente niente. Questo quasi niente è quasi tutto. Questo assolutamente niente non ha limiti. Siamo vicinissimi al nulla e siamo troppo grandi per noi stessi. Sono questo orgoglio così modesto e questa gaiezza un po' triste che, oltre a tutta la mia vita, hanno segnato la raccolta di articoli disseminati lungo gli anni, che ho battezzato Odore del tempo.

(JEAN D'ORMESSON - Traduzione di Daniela Maggioni)

 
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Odore del tempo (Libro)





 
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