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Russia l'eterno ritorno di papà Stalin


  
 
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Viktor Erofeev: «Ancora oggi una buona metà dei miei concittadini crede che sia stato un eroe».

Martedì sera tutti da Viktor. Che dallo studio televisivo di Apocrif, in onda a tarda notte sul canale russo «Kultura», parla di narrativa, stronca libri, invita giovani autori, fa polemica sulla vita e sulla morte saltando a piè pari su temi poco alla moda nella Mosca da bere come la prigionia di Mikhail Khodorkovsky o la morte di Anna Politkovskaja e allo stesso tempo evitando il gioco facile del luogo comune sull'irreversibile stato comatoso della politica patria. Irriverente senza essere offensivo, Viktor Erofeev, 62 anni, danza nel cuore delle notti sulla lama sottile che divide la nuova Russia - quella dei talk show, dei vernissage, della dissidenza che mette fuori la testa e comincia ad assaporare il gusto dolce del successo e dello star system - dalla Russia antica - quella della delazione, della paura di finire nei guai, della sottomissione a un potere capriccioso che anche se si è globalizzato alla fine può sempre riservare qualche sorpresa ed è un attimo che ci scappa il morto. Erofeev è l'unico che riesce a parlare male della Russia e insieme tenere in vita una trasmissione di successo, forse perché se la prende con i russi più che con il Cremlino.

Viktor Erofeev, un'intera generazione di sovietici ha detto di aver «amato Stalin», e lei nel suo libro Il buon Stalin (Einaudi) racconta come, a forza di ripeterlo, questa esperienza sia penetrata nel profondo della coscienza russa. Cosa resta di quell'attestato d'amore nella generazione dei nuovi russi alla Abramovitch o alla Xenia Sobchak, la Paris Hilton di Mosca?
«Il desiderio di appartenere a un paese forte e invincibile accomuna la Russia staliniana a quella contemporanea, e ancora oggi una buona metà dei russi è convinta che Stalin sia stato un eroe. Forse si può azzardare che personaggi come Abramovitch, il giovane oligarca che detiene uno dei patrimoni più grandi del mondo, o Xenia Sobchak, la reginetta bionda dei talk show e della mondanità moscovita (figlia di quell'Anatoly già sindaco della Leningrado post-sovietica e grande amico di Putin, dr) interpretino nel mondo dello show business quel gioco del potere che i russi amano e riconoscono come un carattere proprio della loro cultura. Con un ulteriore essenziale requisito: la rigorosa mancanza di concorrenza».

Stalin era georgiano, e lei spiega come questo abbia avuto un certo peso nella politica sovietica. Oggi, ancora una volta, la Russia ha un problema con la Georgia. Il fantasma di Stalin torna forse a ossessionare i russi sotto le spoglie del presidente Saakashvili?
«Stalin era un georgiano "nostro", che aveva avuto la capacità di travasare la sua nazionalità d'origine nella grande palude sovietica, e farne quasi un vezzo, come quei nèi posticci che abbellivano le dame del '700 senza snaturarne il volto. Saakashvili invece è per i russi il georgiano-straniero, che usa l'appartenenza georgiana in chiave anti-russa, e che allo stesso tempo non potrebbe mai assurgere a simbolo del "buon georgiano". Anche l'altra metà dei russi, convinta che Stalin sia stato il peggiore dei dittatori, non riesce a trovare simpatico Saakashvili».

Lei descrive uno Stalin familiare, che il popolo riconosce come padre della nazione dai gesti, dalle assenze, dalle abitudini, dalle piccole ossessioni e dai gusti in fatto di cibo o di donne. Crede che si tratti di un passaggio costituivo della dittatura? Ci sono antidoti con cui contrastare questa specie di «pericolosa familiarità»?
«Quando si sta in famiglia si è più disposti a lasciar correre, e quando intorno a un leader si crea una dimensione affettiva molto forte si è più indulgenti con i suoi errori. Per cui senz'altro la dimensione familiare che si cera intorno alle gesta del capo contribuisce a rafforzarne il potere. La stessa cosa si è verificata altre volte nella storia, penso alla Francia di Charles de Gaulle o all'Italia di Berlusconi. Ma è l'assenza di ironia a trasformare un capo carismatico in un dittatore. Finché intorno a lui c'è la satira, la presa in giro, il sense of humour, i popoli sono al sicuro. Con Stalin non si scherzava. Mai».

«Dopo la scomparsa di Fedjakyn, un senso di impotenza si impadronì della famiglia, che subito si interrogò: "Perché?". Alla fine arrivarono alla conclusione che "loro sanno perché"». In questo passo del suo libro è riassunta tutta l'impotenza del popolo russo nei confronti del potere. Quali sono secondo lei le condizioni di un cambiamento in questo modo di relazionarsi all'autorità?
«Cito spesso quest'episodio avvenuto a Mosca nel 1937: sono le tre di notte, suonano alla porta, tutti sono svegli e si aspettano di essere arrestati. Mandano il nonno ad aprire la porta agli agenti dell'Nkvd, e dopo un po' lui torna di corsa gridando di gioia: "Evviva! Sono i pompieri! La casa brucia!". Da sempre il popolo russo ha più paura del potere che delle catastrofi naturali. E ancora oggi le leggi sono concepite con un fondo di sadismo, come se fosse praticamente impossibile sopravvivere senza infrangerle. Il sogno quotidiano di ogni cittadino russo è che la giornata non gli riservi nessun incontro con l'autorità costituita, dal gaì (il temuto controllore dell'ordine stradale) a un giudice di tribunale, peggio che mai».

Vivendo in Russia si ha spesso l'impressione che la storia si ripeta senza sosta, dallo zar a Stalin, fino a Putin. Prendiamo il caso Khodorkovsky, imprigionato in Siberia dopo un processo-farsa: non è forse il simbolo di una Russia che non cambia?
«La storia russa è un circolo e i nostri politici, fidando sulla rassegnazione individuale e su una naturale propensione del popolo al fatalismo, fanno di tutto per non spezzarlo. Solo la Russia poteva fare di un oligarca un eroe tragico come è oggi Khodorkovsky».

Dopo Putin, Medvedev. Cosa pensa del nuovo presidente? Può definirsi un moderno «occidentalista»?
«È un liberale, e sembra avere un certo talento per affrontare le questioni in modo democratico. Ho fiducia in lui, ma il problema sono i russi, che tendono sempre a vedere nella democrazia una forma di debolezza caratteriale»

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A CAPRI PER IL PREMIO GORKY
Viktor Erofeev, nato a Mosca nel 1947, è uno dei maggiori scrittori russi contemporanei. Il padre, prima interprete dal francese di Stalin, poi diplomatico a Parigi, fu rimosso dall'incarico in seguito alla pubblicazione di alcuni scritti del figlio sull'almanacco Metropol, considerato un simbolo della dissidenza sovietica all'estero. Dopo la perestrojka, Viktor Erofeev torna in patria e nel 1990 pubblica La bella di Mosca (tradotto da Rizzoli), a cui segue L'enciclopedia dell'anima russa (Spirali) e ora Il buon Stalin (Einaudi). In questi giorni è a Capri per la prima edizione del premio Gorky, che consegnerà oggi alle 19 a Aldo Nove (per Superwoobinda, Einaudi) e a Margherita Crepax (per la traduzione di Sasha Sokolov, La scuola degli sciocchi, Salani).

 
Relazioni
eco di stampa di L'enciclopedia dell'anima russa (Libro)
Viktor Erofeev (Saggista, critico letterario)





 
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